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Anatomia di un paese. Il corpo e l’anima di una comunità in cambiamento

di Valeria Pica


 

Vedo nascere l’alba sul dorsale della montagna ogni mattina in cui mi sveglio nel mio letto a Fontecchio. Vedo le forme delle nuvole nel cielo indaco, il brillio delle stelle, sento il fiume arrabbiato o sereno che segue inesorabile il suo corso. Vivo e respiro un’aria di cambiamento. Vedo, sento e vivo come in pochi altri posti mi è capitato di fare. Tutto ciò basterebbe a giustificare una scelta di vita e professionale che ruota attorno a Fontecchio da 6 anni in modo preponderante perché è qui che mi sento a casa; e questo dato non è secondario. Il senso di appartenenza è fondamentale per fare scelte che ancora sembrano folli e sconsiderate per gli animi urbani; ma il magnetismo che permea tutte le pietre del paese non ha pari in città che a tratti sono sonnolente, autoreferenziali e sovraccariche di tutto. Il mio percorso qui si è intrecciato con alcune persone e alcuni progetti cui sono molto affezionata, sono progetti in cui dal 2017 credo e cui dedico molte delle mie energie, perché scalda il cuore vedere come un piccolo gesto, una canzone, una parola possono ridare il sorriso e riaprire cassetti della memoria in persone che considerano paesi come Fontecchio un luogo di sospensione dal tempo e dallo spazio. È nella narrazione comune immaginare paesini arroccati sulle colline o sulle montagne come piccoli mondi chiusi allo sviluppo, cristallizzati in una dimensione bucolica, romantica del passato. Per chi vede, sente e respira queste pietre è evidente che non sia così. Smantellando il paradigma del borgo inteso come luogo di evasione dalle città, quando si arriva e si resta si comprende anche che il ritmo è diverso, gli equilibri sono diversi così come le opportunità, ma ciò non significa affatto che siano minori. Sono diversi. Ripartendo dall’educazione alla diversità, alla complessità e dalla comprensione e attenzione alle vocazioni si può meglio entrare nel processo di cambiamento che Fontecchio sta attraversando oggi, ma che parte da lontano, molto lontano. Perché i processi di sviluppo possono innestarsi e detonare laddove esiste un sostrato pronto ad accompagnarli e accoglierli, sennò rischiano di rappresentare infatuazioni della cui memoria le aree interne sono stracolme e che determinano tanta della diffidenza e dell’indolenza in risposta alle nuove progettualità. I processi per loro natura sono lenti, si costruiscono in una modalità di mutua fiducia e collaborazione talmente fragile da richiedere molta concentrazione, attenzione e presenza. Tutto ciò, però, a cosa serve? Qual è il senso di dedicarsi con tanta ostinazione, controtendenza rispetto alle narrazioni comuni secondo cui la cultura è elitaria e lontana dalle scelte quotidiane? Quale valore aggiunto dà al nostro essere, stare e restare in questi territori? Per rispondere a queste domande è opportuno immaginare, e poi attuare, un cambio di paradigma in cui la cultura non è conseguenza felice, ma sporadica di azioni di mecenatismo che assorbono capacità economiche non riuscendo in nessun caso a ripagare il costo delle attività intraprese; la cultura non è neppure più un settore economico legato principalmente all’intrattenimento come sviluppo delle industrie creative e culturali. La cultura 3.0 ribalta questo paradigma e mette al centro della riflessione la partecipazione culturale attiva attraverso l’attivazione della comunità nella creazione di valore economico e sociale che consente l’aumento della visibilità, della reputazione e della capacità attrattiva del luogo sia come destinazione turistica sia come piattaforma professionale. A livello locale e nazionale, “il fenomeno delle pratiche culturali partecipative, e in particolare dei progetti di arte pubblica partecipata, sta diventando un tema di grande rilevanza nei processi di rigenerazione urbana; […] permettono di ridefinire radicalmente il senso di appartenenza e l’identità di un quartiere come dell’intera città, con un immediato impatto in termini di senso di responsabilità e comportamenti pro-sociali dei cittadini, ridefinendo le basi sociali e simboliche del luogo” (Sacco, Teti, 2017). Il processo avviato a Fontecchio si innesta in questa direzione già con la realizzazione delle prime residenze d’artista nel 2018 in cui la partecipazione della comunità, la ricerca del genius loci, la conoscenza dei luoghi per co-costruire una nuova narrazione, la ridefinizione degli equilibri tra uomo e natura, la consapevolezza della fragilità dell’ecosistema culturale del territorio sono diventati i punti nodali delle scelte e delle attività sperimentate negli anni successivi. Tutto questo ha bisogno di tempo e di interventi ragionati e condivisi affinché diventino efficaci e producano effetti positivi e pervasivi. E allora se il paradiso non è un luogo, ma un tempo(1) questo è il tempo del cambiamento che come comunità di pratiche, ciascuno e ciascuna può rendere reale in un processo di trasformazione e innovazione e grazie alle proprie vocazioni, capacità, immaginazione ed energia può far ribaltare la convinzione comune sull’effimerità e superfluità della cultura. Se Fontecchio continuerà nella rivoluzione della cultura 3.0 allora potrà davvero diventare un punto di riferimento e per fare una rivoluzione ci vuole un grande sentimento d’amore(2). La cultura non è il fine, la cultura è il motore del cambiamento.

  1. Citazione dal film Anime borboniche di Paolo Consorti e Guido Morra (2021)

  2. Citazione da Ernesto Che Guevara P.L. Sacco, E. Tet

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